- Questo topic ha 15 risposte, 7 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 14 anni, 8 mesi fa da Franco.
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Marzo 10, 2010 alle 4:33 pm #1557635pdigiambattistaPartecipante
Volevo segnalare a tutti gli amici del forum ed appassionati di fotogiornalismo, il nuovo lavoro di Pep Bonet sulla tragedia che ha colpito Haiti. Per la visione basta collegarsi al sito di Pep(su google si cerca Pep Bonet e poi entrate nel suo sito). Un saluto a tutti, Pietro. [can]
Marzo 10, 2010 alle 4:35 pm #1557637Peter72PartecipanteGrazie per la segnalazione!! Un saluto anche a te Pietro
Marzo 10, 2010 alle 5:46 pm #1557651tecnico73Partecipante51 scatti uno più drammatico dell’altro che mostrano la situazione di Haiti e le gravi condizioni in cui versano dopo il sisma qui trovale le immagini http://www.pepbonet.com/
Marzo 12, 2010 alle 10:33 pm #1558228pirulino1989Partecipanteguardato tutto attentamente…..mi sorge spontaneo una domanda….cosa ne pensate del fatto che in alcune foto Bonet ha dovuto pensare ad una composizione fotografica avendo d’avanti delle scene cosi’ cioe’ del tipo i cadaveri….anche sotto le macerie….il piede…..cioe’ come si puo’ pensare alla composizione della foto davanti a scene del genere…ovviamente non e’ una critica e’ un professionista e’ solo un’osservazione
Marzo 13, 2010 alle 5:05 pm #1558420pdigiambattistaPartecipanteCarissimo questo è un mestiere davvero duro e non pensare che ci sia freddezza nel riprendere e comporre, come tu dici in simili situazioni. Qualcuno deve pur documentarle/raccontarle simili tragedie umane e non pensare che nel farlo, non provi alcuna sofferenza. Dici come fa a concentrarsi sulla composizione di fronte ad un cadaver…..un piede, è ddificile spiegarlo a parole, ma un certo tipo di composizione fa parte del tuo linguaggio e quindi è quasi automatica, semmai ci si concentra sul contenuto, in questo caso racconti attraverso le immagini, la sofferenza della tua anima e quella che hai sentito intorno a te riguardo a ciò che hai difronte. E’ davvero difficile a parole descrivere questo processo, spero almeno in parte di avertelo chiarito. Pietro. [can]
Marzo 14, 2010 alle 8:08 pm #1558771mattiaPartecipanteDopo alcune foto ho dovuto interrompere la visione. Mi spiace ma, al di là della qualità artistica o meno della foto, certe immagini mi hanno “disgustato” e le ho trovate prive di una cosa essenziale; il rispetto verso chi sta soffrendo. Il diritto di cronoca avrà pure le sue ragioni, ma il rispetto verso l’altro le supera tutte. Purtroppo, secondo me, ci stiamo imbarbarendo e, pur di offrire qualcosa di nuovo, speso siamo disposti ad utilizzare di tutto, in particolar modo il dolore. Così facendo, però, non c’è il rischio dell’assuefazione? Queste parole le ho scitte di getto e spero di non essere stato offensivo. Se così non fosse, prego cancellare. Ciao e scusate lo sfogo
Marzo 15, 2010 alle 3:13 am #1558936pirulino1989Partecipanteognuno ha la sua opinione e secondo me non sei stato offensivo ti dico la verita’ io lo trovo davvero un ottimo reportage in sintesi il messaggio che deve trasmettere e’ proprio l’orrore che ha provocato il terremoto….purtroppo e cosi’ e cmq come hai letto sopra anchio ho trovato strano vedere determinati scatti….che mi hanno un po’ turbato….e mi hanno fatto riflettere su come il fotografo li abbia resi fotograficamente parlando “belli”in un certo senso
Marzo 15, 2010 alle 3:27 am #1558942EnricoXPartecipanteOriginariamente inviato da mattia: Ciao e scusate lo sfogo
Ciao Mattia, ho guardato più e più volte questo reportage sulla tragedia Haitiana e ho avuto modo di confrontarlo con altri lavori che hanno ritratto il medesimo evento, quale per esempio quello del grande fotografo italiano Pellegrin. Ora, lo stesso tipo di linguaggio visivo scelto da Bonet, ovvero questo colore quasi “ruvido”, così insistentemente materico, è estremamente efficace e sintetico nel trasmettere la brutalità di quei momenti ed eventi. Il linguaggio di Pellegrin, che lavora con pellicola in BN, mi è sembrato invece più “sussurrato”, meno ossessivo nel porci di fronte alla mostruosità di certe situazioni e del dolore umano che, purtroppo, permea profondamente così tante realtà e situazioni. A mio parere cercare di trasmettere con le immagini tremende tragedie come quella che è capitata nel modo in cui Bonet ha inteso interpretarle non è affatto fonte di assuefazione alla violenza, perchè parla della realtà delle cose non filtrata, non mediata. Credo invece che queste immagini sveglino profondamente la coscienza, abituata e sopita da migliaia di ore di TG e servizi televisivi totalmente inutili e futili. [lo]
Marzo 18, 2010 alle 3:39 am #1559753EnricoXPartecipanteOriginariamente inviato da mattia: certe immagini mi hanno “disgustato” e le ho trovate prive di una cosa essenziale; il rispetto verso chi sta soffrendo.
Riprendo questa riflessione, perchè sto guardando il film su Nacthwey “War Photographer”, che mi ha profondamente scosso. A seguito di queste parole, che ho sentito molte volte, e che pongono una questione etica fondamentale e niente affatto scontata, vorrei riportare le parole del “credo” di Nachtwey, che mi sono preso la briga di tradurre dal sito in inglese del film. Mi hanno profondamente colpito e vorrei condividerle con voi. Perchè fotografare la guerra? La guerra è sempre esistita. La guerra sta divampando in tutto il mondo in questo momento. E c’è poca speranza di credere che la guerra possa cessare in un immediato futuro. Mano a mano che l’uomo è diventato più civilizzato, i modi di distruggere il suo prossimo sono diventati mano a mano più efficenti, crudeli e devastanti. E’ possibile mettere fine a una forma di comportamento umano che è esistito attraverso la storia per mezzo della fotografia? Le proporzioni di questo concetto possono sembrare ridicole, senza misura. Eppure, proprio questa idea mi ha motivato. Per me, la forza della fotografia risiede nella sua abilità di evocare un senso di umanità. Se la guerra è un tentativo di negare l’umanità, allora la fotografia può essere percepita come l’opposto della guerra e se utilizzata bene può essere un prezioso ingrediente nell’antidoto alla guerra. In un certo senso, se un individuo si assume il rischio di mettersi in mezzo ad una guerra per comunicare al resto del mondo cosa sta succedendo, lui sta provando a negoziare per la pace. Forse è per questa ragione che quelli che sono incaricati di perpetuare una guerra non amano avere fotografi attorno. Ho sempre pensato che se ciascuno di noi potesse essere sul posto una volta e vedesse con i suoi occhi che cosa il fosforo bianco può fare alla faccia di un bambino o che tipo di inspiegabile dolore è causato dall’impatto di una singola pallottola o come un tagliente pezzo di shrapnel possa amputare di netto una gamba se solo ciascuno di noi potesse essere sul posto per vedere con i suoi occhi la paura e il dolore, solo una volta, allora tutti capiremmo che per nulla al mondo si dovrebbe lasciare che le cose possano arrivare ad un punto tale che questo possa accadere anche ad una sola persona, lasciandone sole migliaia. Ma non tutti possono essere là, ed è questo il motivo per cui i fotografi ci vanno. Per mostrare alle persone, per raggiungerle, afferrarle e fargli smettere quello che stanno facendo, per fargli prestare attenzione a quello che succede. Per creare fotografie abbastanza forti da superare gli effetti di diluizione dei mass media e scuotere le persone dalla loro indifferenza. Per protestare e con la forza di quella protesta fare in modo anche anche altri protestino. La cosa peggiore da provare come fotografo è che sto traendo un beneficio dalla tragedia di qualcun altro. Questa idea mi perseguita. E’ qualcosa con cui devo fare i conti ogni giorno perchè so che nel momento in cui la genuina compassione fosse prevaricata dall’ambizione personale avrò venduto la mia anima. La posta in gioco è semplicemente troppo alta per me per credere diversamente. Io provo a diventare più responsabile possibile verso il soggetto. L’atto di essere un estraneo che punta una macchina fotografica può essere una violazione di umanità. L’unico modo in cui posso giustificare il mio ruolo è nell’avere rispetto della situazione dell’altra persona. La misura in cui io lo faccio è la misura in cui io vengo accettato dagli altri, ed è la misura in cui io posso accettare me stesso. James Nachtwey
Marzo 18, 2010 alle 4:36 am #1559770FrancoPartecipanteRingrazio Pietro per la segnalazione, alcune foto sono di ottimo livello, con uno stile piu’ diretto e meno “artistico” rispetto altri suoi reportage. Forse anche Pat Bonnet, come Pirulino, ha provato disgusto, paura, sconcerto nel guardare le scene che aveva davanti agli occhi e non ha avuto la necessaria concentrazione per curare molto le inquadrature, la posizione di ripresa, ma queste foto sono la testimonianza che in quei posti si è vissuto un dramma. Anni fà feci anche il freelance d’agenzia non a tempo pieno, ma pensavo che sarebbe stata la mia professione, idee adolescenziali…… in città lavoravo in moto, è quando organizzavano una troup formata almeno da un reporter e un cinereporter (in certi luoghi per evitare furti era obbligatorio viaggiare almeno in coppia) ci spedivano nei luoghi di terremoti, alluvioni, attentati a caserme, rapine…. ad ogni angolo ti chiamono, ti chiedono aiuto, ti chiedono di venir vedere la loro casa crollata, i volti disperati, le aziende distrutte e i lavoratori con le maniche rimboccate in mezzo al fango, ti senti inerme, spesso ti chiedono di fare un articolo sulla loro tragedia e per accontentarli fai perfino promesse che non puoi mantenere…… a fine giornata sei svuotato. Non è facile rimanere freddi, certe “fotografie”, anche quelle non scattate, rimangono sempre impresse nella memoria…..
Marzo 18, 2010 alle 4:46 am #1559771pirulino1989Partecipantegiustissimo deve essere davvero dura
Marzo 18, 2010 alle 6:57 am #1559776FrancoPartecipanteOriginariamente inviato da mattia: Dopo alcune foto ho dovuto interrompere la visione. Mi spiace ma, al di là della qualità artistica o meno della foto, certe immagini mi hanno “disgustato” e le ho trovate prive di una cosa essenziale; il rispetto verso chi sta soffrendo. Il diritto di cronoca avrà pure le sue ragioni, ma il rispetto verso l’altro le supera tutte. Purtroppo, secondo me, ci stiamo imbarbarendo e, pur di offrire qualcosa di nuovo, speso siamo disposti ad utilizzare di tutto, in particolar modo il dolore. Così facendo, però, non c’è il rischio dell’assuefazione? Queste parole le ho scitte di getto e spero di non essere stato offensivo. Se così non fosse, prego cancellare. Ciao e scusate lo sfogo
è sdegno verso il dolore…. Pensa che il fotografo voleva ottenere su di te proprio quest’effetto…… lo stesso effetto che (probabilmente) ha provato lui e coloro che si trovavano in quel luogo disgraziato. Le immagini crude servono a non farti pensare che quello è un set cinematografico, è una questione di realismo, non di sfruttamento del dolore. Quando questo avviene vuol dire che l’immagine ha prodotto in te qualcosa che ti ha trasportato in quei luoghi. Negli avvenimenti di questo tipo, come i terremoti, alluvioni a volte ti viene richiesto di fare una foto e di mostrare al mondo intero l’accaduto…… quasi come una necessità di condividere con gli altri la loro sofferenza, per esorcizzarla, sia per loro una forma di sollievo…. altro discorso sono le fotografie scandalistiche, destinate per le riviste del settore…… le mille foto che ritraggono il processo-scandalo di turno, i mille riflettori su singole vicende, singole persone trasformate in comparse di uno spettacolo non richiesto, carnefici che diventano attori, vittime che scappano dalle scene di un film in cui si sentono braccati…… questo si, che imbarbarisce la società, è l’effetto della seduzione della finzione del dolore il principale anestetico che imbarbarisce le nostre menti. Le scene di reportage di Pep Bonnet rappresentano la storia, sono cultura, interpretano la cruda realtà senza finzione, come le foto dell’olocausto, i reportage di Capa. Alessandro Barricco scriveva a proposito dell’imbarbarimento della società, che quando i barbari saccheggiano i nostri totem, la società si evolve a nuova forma, allora io dico: ben vengano le immagini di Bonnet, se servissero a offuscare le immagini che (quasi) tutti vogliono vedere, il teatrino della realtà messa in onda ogni sera….
Marzo 18, 2010 alle 1:07 pm #1559787EnricoXPartecipanteOriginariamente inviato da fra65: se servissero a offuscare le immagini che (quasi) tutti vogliono vedere, il teatrino della realtà messa in onda ogni sera….
Franco, non posso che essere d’accordo, e tale riflessione è forte e presente anche nello scritto di Nachtwey che ho riportato. Nel film “War Photographer” viene esplicitamente invece detto che quel “mestiere” sta diventando “brutale”, perchè ci sono anche molti fotografi che in qualche maniera quella sofferenza la “sfruttano”. Mi pare di capire che, a livello etico, ci sia una linea di confine molto tenue, ed è quella che il N. individua nell’ultima sua frase. Però guardacaso, le foto che rimangono impresse nella memoria, le foto che “restano” anche dopo che gli eventi sono passati, sono quelle scattate con gli occhi del cuore, con la compassione verso chi soffre, con la partecipazione di un testimone che vive gli eventi in prima linea con chi li subisce. [lo]
Marzo 18, 2010 alle 3:19 pm #1559813FrancoPartecipanteho letto lo scritto di Nachtwey e capisco cosa vuole dire, se un fotografo ha una coscienza, questa è molto viva quando si lavora in certi luoghi, c’è un fondo di verità quando si dice che il fotografo sfrutta l’occasione, un piccolo recondito fondo di verità che non abbandona mai il fotografo, quello che possiede una coscienza…. Riguardo i principi etici, ci sono dei protocolli da seguire, ma non sempre il fotoreporter li segue, nel caos degli eventi a volte la notizia è prioritaria, e gli spazi di tempo dell’evento troppo ristretti, inaccessibili. Però mi pare di capire che agli occhi di molte persone ci sia una visione distorta del reporter che documenta gli eventi nei luoghi di crisi, molti tendono ad accomunarlo al fotoamatore, al canoniano che cura l’attrezzatura e l’inquadratura con fini estetici, ai manipolatori di immagini, alle agenzie senza scrupoli, agli editori che si occupano di informazione scandalistica….. non è così, il fotoreporter fà il suo lavoro, quello di documentare fotograficamente, e come dice Enrico, umanamente (altrimenti le foto non bucano la coscienza, non trasmettono il punctum della vicenda). Il suo lavoro termina alla consegna dei rullini o dei file al mandante del lavoro, l’agenzia……… Capa, uno dei piu’ grandi fotografi di guerra era un uomo di pace, ed è vero quello che scrive Natchwey, la fotografia è (spesso) promotore di pace, perchè descrive l’orrore in modo crudo, come avevo scritto in precedenza non seduce con il dolore come fà invece certa stampa, non mostra il dolore con un fine diverso dalla semplice documentazione dei fatti.
Marzo 18, 2010 alle 7:53 pm #1559884EnricoXPartecipanteOriginariamente inviato da fra65: Però mi pare di capire che agli occhi di molte persone ci sia una visione distorta del reporter che documenta gli eventi nei luoghi di crisi, molti tendono ad accomunarlo al fotoamatore, al canoniano che cura l’attrezzatura e l’inquadratura con fini estetici, ai manipolatori di immagini, alle agenzie senza scrupoli, agli editori che si occupano di informazione scandalistica…..
Concordo su tutto Franco, aggiungo solo che durante il film Nachtwey dice espressamente che da quando ha cominciato lui (1980 circa) è diventato sempre più difficile per i fotoreporter lavorare perchè gli spazi nelle testate e sui giornali si vanno via via riducendo perchè chi pubblica inserzioni pubblicitarie non le vuole vedere associate a certe immagini chock, che sminuiscono il messaggio commerciale… Anche questo dovrebbe far riflettere sul valore di quelle testimonianze…
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