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Febbraio 21, 2015 alle 3:41 pm #1826476ClaudioPartecipante
Non conoscevo Barmaz.
Quel che secondo me non emerge con chiarezza dalla serie è quel che volevi mostrare tu: il tuo punto di vista. Non ci sono foto sgradevoli né tantomeno “sbagliate”, ma una mancanza di coerenza nella narrazione.
Ai miei occhi ad esempio ha suscitato interesse il viallaggio come presenza costante e duratura, un luogo che, al di là di chi sia ad abitarlo, continua ad esistere ed a cambiare. In questo senso, giusto per darti un’esemplificazione di quello che intendo, se io dovessi proporre una serie a partire da questo tuo materiale, potrei scegliere di cominciarla come hai fatto tu con un avvicinamento (foto 01 e 02) che già mostra la presenza dell’ambiente urbanizzato (ma anche abitato: lato destro foto 01) e che poi isola il villaggio (02). Quindi, in un crescendo, continuerei l’avvicinamento con le foto prese dall’interno (04 e 05); concludendo con l’erba e la chiocciola: i nuovi abitanti (06 e 03). La 10 probabilmente la escluderei, visto che come l’altra immagine della chiocciola (09) risulta ridondante. (Scegiendo con un po’ di fantasia di personificare il vilaggio, la 10 la si potrebbe anche interpretare come una soggettiva).
Ho scritto sopra che non mi è molto chiaro il tuo punto di vista considerando la serie. Aggiungo che, leggendo invece l’ultima (e unica) didascalia credo (e te ne chiedo conferma) che il tuo intento fosse di opporre passato e presente. Esemplificando: villaggio = passato, realtà abitata (foto 01 e 10) = presente. In quest’ottica però tutte le foto del villaggio sarebbero un po’ deboli perché ci mostrano il villaggio completamente vuoto così come ci appare oggi e i segni del passato restano soltano nelle strutture fatiscenti. Diverso sarebbe se all’interno degli ambienti scoprissimo mobili, attrezzi o altri oggetti che fungerebbero da collegamento con un tempo che non c’è più.
Ovviamente non c’è un punto di vista che sia migliore di un altro, se non in un’ottica del tutto personale. Ma credo sia importante cercare sempre di individuarne uno, in un modo che non risulti troppo generico agli occhi dell’osservatore. Altrimenti si corre il rischio che la disposizione in serie delle immagini (elemento fondamentale in un reportage) appaia quasi come una presentazione casuale delle stesse (e non conta poi molto se, prese singolarmente, sono magari anche delle foto riuscite). Ciao!Febbraio 21, 2015 alle 12:03 pm #1826450ClaudioPartecipanteNon ho letto il libro né penso che guarderò il film, se non sotto ricatto di leonessa. Però da più di un anno è argomento di conversazione: capita sempre che qualcuno ne parli. Magari anche chi certe cose le conosce solo per sentito dire. Un po’ come del tempo che ci sarà domani, di certi reality show di successo, di come si cucina…
Tu passi in ACR anche i .JPG? Ho letto che Camera Raw migliora sempre di più (io sono fermo alla versione 6) in quanto alla possibilità di elaborare una foto solo lì (ovviamente con delle limitazioni rispetto a Photoshop, ma con alcune non trascurabili novità rispetto alle versioni precedenti). Tu usi la versione 8? Come ti trovi rispetto alle versioni precedenti?
Febbraio 20, 2015 alle 3:06 pm #1826354ClaudioPartecipanteE Photoshop, naturalmente. Un po’ come descrivere una statua di Sant’Ambrogio e dimenticarsi di menzionare l’onnipresente flagello: imperdonabile!
Febbraio 20, 2015 alle 1:36 pm #1826347ClaudioPartecipanteSe scegli di convertire in bianco e nero la 04 e la 05, dovresti poterci tirar fuori almeno una cinquantina di sfumature di grigio. A parte gli scherzi, sono tutte interessanti dal punto di vista descrittivo. Peccato (pensando a qualche stampa) non solo per il .JPG, ma soprattutto per i 5 mpx. Ad ogni modo – pur sapendo che fotograficamente (avverbio) preferisci rimanere in ACR – una sortita in Photoshop io l’avrei fatta lo stesso. Ciao!
Attachments:Febbraio 19, 2015 alle 1:38 pm #1826189ClaudioPartecipante…eheh: viola. Le sfumature di colore, la cura per la composizione e dello sfocato ne farebbero, stampato in grande, un bell’oggetto d’arredo. Foto come questa sono insieme dettaglio e astrazione. Astrazione che la sinuosità dei fasci di fibre e i giochi di luce consentono, rendendo difficile la collocazione della scena in un contesto, mancando una presentazione. E poi c’è il dettaglio: una delle magie della fotografia: ci avvicina oltre i limiti dell’occhio. E il digitale non ha fatto che ampliare in maniera esponenziale le occasioni di questa possibilità. E così ci troviamo, quotidianamente – un po’ come ci accade coi tramonti, con certi muri scrostati, o con certi tessuti, o… – ecco ci troviamo a poter facilmente realizzare infinite bellissime variazioni. E credo sia, in questi specifici casi (e dati per scontati un minimo di tecnica e di gusto) un merito che l’autore, più che in altre situazioni, deve condividere col mezzo, con la fotocamera e l’obiettivo. Ciao!
Febbraio 17, 2015 alle 7:05 pm #1825989ClaudioPartecipanteAhah! Se la variante è consapevole allora è un virgolettato improprio e devo dedurre che sei… un giornalista?!
Penso che quel rischio lo corriamo tutti noi. Io per primo. E, nel momento in cui di quel rischio ne abbiamo consapevolezza, con esso ci troviamo costantemente a dover fare i conti. Oggi, molto più che un tempo, in qualsiasi ambito (e quello fotografico non fa eccezione) è sempre più difficile districarsi tra il rischio di un’originalità fine a se stessa (o al limite finalizzata al farsi notare e/o all’aver successo) e il rischio di epigonismo/manierismo inconsapevole. Parlo di rischio non per una questione morale – lungi da me! – ma perché sono convinto che se quelle che potremmo chiamare le fondamenta di uno stile (ovvero di una propria personalissima cifra espressiva) ecco se queste fondamenta sono vuote o piene solo d’ambizione (si pensi a quelli che farebbero carte false per pubblicare un libro o anche una sola foto su una certa rivista) e non rafforzate da una visione d’insieme dell’ambito/settore che si frequenta/pratica che sia sufficientemente solida, alla lunga quel che si è costruito comincerà a scricchiolare, inesorabilmente. E chi pensa diversamente di solito ha tenuto le sue foto per tutta la vita in un cassetto.
La pace interiore, per essere raggiunta, non ha bisogno d’un pubblico più numeroso di una sola individualità: noi stessi. Ma quando però il pubblico per cui ci troviamo a fare quel che facciamo sale (in virtù di una nostra scelta) da uno a due (o più) potenziali fruitori allora le cose cambiano: possiamo sempre pensare e dire che lo facciamo anche per noi stessi (e può benissimo essere che ciò sia sinceramente vero), ma non possiamo più dire che lo facciamo solo per noi. Questa è un’umilissima… balla (e aggiungo che non stento a credere che in molti – per chiarezza: non sto pensando a te – questa balla se la raccontino allo specchio). Ed è dunque quando si individua un pubblico potenziale oltre noi stessi, ecco è a questo punto che tutto-quello-che-non-facciamo-solo-per-noi-stessi diventa determinante e necessario; e proprio per questo va curato/saputo. Con tali premesse il ritorno estetico dell’importante-è-che-piaccia-a-me sono convinto non ci possa più bastare (perché rimane una condizione necessaria ma non più sufficiente) e ciò che conterà almeno altrettanto sarà il giudizio dei membri autorevoli del contesto in cui scegliamo di proporre (e tentiamo quindi di far affermare) ciò che proponiamo. E, in termini pratici, non c’è differenza se il nostro pubblico (ovvero quel pubblico che noi abbiamo in mente quando realizziamo un’opera) coinciderà con un gruppo di fotografi/artisti che la vedono su per giù come noi oppure se coinciderà col direttore del MoMA o col presidente del circolo fotografico in cui vorremmo esporre o ancora con quel tale che la sa tanto lunga su un forum virtuale o… L’importante sarà soddisfare (oltre alle nostre) anche le attese inscindibilmente legate al contesto in cui si vuole esporre/pubblicare. Ricordandosi che ogni piccolo scarto dalla norma (ogni piccolo cambio di prospettiva) sarà quasi sempre consentito in linea teorica, ma nel contempo quasi sempre verrà osteggiato nei fatti (in maniera direttamente proporzionale all’intransigente egocentrismo di chi teme che quel cambiamento di prespettiva metterebbe in discussione la sua posizione e il suo status all’interno del contesto stesso). E questo vale al di là del contesto di ricezione, trasversalmente. Aggiungo che secondo me è altrettanto bene ricordarsi – per non rischiare destabilizzanti e irragionevoli botte di depressione o di entusiasmo – tenere conto che, cambiando il contesto, (quasi sempre) cambiano anche gli orizzonti di attesa del pubblico. Con tutto ciò che ne consegue.
Spero d’aver chiarito il non detto rispetto a quel “rischio” di cui parlavo: un rischio che – sia chiaro – corri tu Simone come chiunque altro che ambisca, pur con la massima umiltà e consapevolezza dei propri limiti, a (cercare di) proporsi come autore in un determinato contesto di ricezione. Ciao!
Febbraio 17, 2015 alle 1:56 pm #1825936ClaudioPartecipante[quote=”78gibo” post=651350]Il “viaggio” è solitario ma, in talune circostanze, ci si trova di comune accordo a guardare nella stessa prospettiva.
Ma io in genere “voglio trovare la mia alternativa e la mia alternativa è la scossa più forte che ho”.[/quote]…è curiosa la variante che (direi inconsapevolmente dato che citi tra virgolette) hai introdotto: da “voglio cercare la mia alternativa e la mia alternativa è la scossa più forte che ho” a “voglio trovare la mia alternativa e la mia alternativa è la scossa più forte che ho”. Di sicuro l’entusiasmo e, per dirla con gli Afterhours, l’adrenalina non ti mancano. Ma stai attento a non ridurre il cercare (e magari trovare) la tua alternativa con il semplice trovare un’alternativa ancora non percorsa da altri. La differenza c’è e, alla lunga, si sente. Eccome se si sente. Ciao!
Febbraio 14, 2015 alle 12:03 pm #1825650ClaudioPartecipanteLa macchia grigia sulla destra sopra i coppi (che sia un nuvolone incombente o – come avevo pensato prima di leggere la tua introduzione – la sagoma di una collina sfumata dalla foschia) non credo che aggiunga qualcosa allo scatto, ai miei occhi anzi lo “sporca” (perché troppo nascosta e quindi troppo poco incombente; e perché troppo indefinita e quindi troppo poco leggibile, in una foto che vedo al contrario caratterizzarsi per contegno compositivo ed efficacia descrittiva). Potresti, casomai ti sintonizzassi su questa mia impressione, chiedere a Hilla Becher un cielo in prestito. Ciao!
Febbraio 13, 2015 alle 1:19 pm #1825549ClaudioPartecipanteMi faccio prendere per mano. Allargo gli orizzonti. Montagna e mare. Campagna e città. La prospettiva è a rima incrociata: B A-B B-A. Continuerà la serie? Sarà la volta degli interni? O di alterati paesaggi interiori? Chissà. Resta comunque il fatto che il viaggio, fin qui, nella successione delle tappe, secondo me, ci sta. Ciao!
PS: a proposito degli anni settanta – che per ragioni anagrafiche non ho toccato nemmeno col pannolone – posso dire che ho avuto la stessa sensazione di Marco. Quando ho visto i colori mi son tornati alla mente quelli delle fotografie di alcuni vecchi manuali scolastici degli anni sessanta e settanta che sfogliavo da bambino. Convenzioni e inchiostri delle stamperie/tipografie? Settaggi degli scanner? E’ proprio vero allora: le vie dell’inconscio (tecnologico e non!) sono infinite.
Febbraio 11, 2015 alle 5:14 am #1825319ClaudioPartecipanteL’Uomo Tigella
Finalità dell’elaborazione era quella di sostituire l’Ape Piaggio con l’Uomo Tigella (che poi, detto per inciso, è lo zio emiliano di Zenzy, il famoso biscottone allo zenzero creato dalla DreamWorks). Ho immaginato l’Uomo Tigella di ritorno da una grande abbuffata consumata presso una norcineria umbra. Qui l’Uomo Tigella è ritratto mentre si riposa. Siede sfinito per il gran mangiare, ma non manca però di passare in rassegna col pensiero (e col sorriso sulle labbra) i succulenti affettati appena gustati: coglioni di mulo, fegatino, lombetto di cinghiale, lonzino, capocollo, palle del nonno e, immancabile, l’ambrosia dei fotografi: lo scarafischio. Mo che lavòr!
Febbraio 6, 2015 alle 3:35 pm #1824890ClaudioPartecipante[quote=”78gibo” post=650489]certo, benvenuto! anche se io pensavo a Duchamp.. ma fai pure “inserisci”, mi casa es tu casa! e magari riusciamo, mai visto prima nell’era del social 2.0 a ricevere commenti su entrambe, incrociate e a testa in giù 😀 [lo]
P.S. La mia è la prima eh!? :D[/quote]
Sai, ti confesso, un po’ temevo che l’ospitalità fosse ormai un – come dicono gli smanettoni?! – “attributo deprecato” nell’era dei social 2.0. Non penso di potermi ricredere, ma quantomeno mi tocca con piacere constatare che esistono ancora anfitrioni analogici che ci tengono a certe buone maniere.
Ma la mia foto spero che nessuno – e tantomeno tu – la prenda come una proposta, non dico seria, ma nemmeno seriosa. E’ un crop estremo di una foto-ricordo-scattata-al-volo fatta a una gustosa vetrina della Libreria Bocca (tempietto milanese del feticismo artistico-librario). Ingrandendo la foto sul pc ho scoperto che c’ero pure io riflesso e… e non sto a farla lunga. Tu, prendila come un commento: un commento visuale. Diciamo una scusa per tirare in ballo Manzoni accanto a Duchamp. Ecco: preferisco Manzoni a Duchamp, oltre che per una sorta di autarchia del gusto (por supuesto que hablo de mi gusto, claro), per quell’aspetto forse troppo spesso trascurato quando si discute sulla sua “merda”: scarto o non scarto, arte o non arte, è comunque roba sua, parte di lui: essenza organica e realtà dapprima scelta e poi assimilata e infine alterata (digerita), quindi confezionata: realtà mediata, presentata in una forma esteticamente e socialmente accettabile. Non vien fuori insomma solo l’aspetto ultracitato del “ready made” e dell’artisticità di un oggetto firmato da un artista ecc. Da Manzoni mi pare si possa tirar fuori anche una meta-riflessione – ok, riflessioncina – sull’atto dell’elaborare la realtà acquisita; in ultima istanza sulla postproduzione (digitale e non)… che altera, in un certo senso astrae, ma avendo sempre la realtà come riferimento, anzi: come fondamento. E visto che nessuna fotografia può dirsi completamente oggettiva… E qui mi fermo. Non vado oltre perché non vorrei incappare, argomentando, nella censura 2.0 …e così mi rimetto alla tua – spero fervida – fantasia ermeneutica.Di’ un po’: hai voglia di raccontare qualcosa in più sulle intenzioni concettuali che stanno dietro a “selfie mon amour” (quella duchampiana)? E ancora grazie per la generosa ospitalità. Ciao!
PS: …cosa? Ah, giusto: la mia solita sbadataggine. Ecco, questa volta esagero: una video-citazione d’autore, Luigi Magni che racconta a modo suo gli antenati dei censori 2.0 (tratta da “La Tosca”, 1973).
PPS: la seconda foto la vedo adorabilmente curata e finta, come del resto qualsiasi tradizionale autoritratto non può che essere… nel momento in cui ci si mette in posa per farselo! Poi una curiosità su quei pelucchi bianchi che si stagliano sopra le parti in nero dell’immagine: son frutto della scansione o della stampa? Anche quelli danno un piccolo surplus estetico allo scatto.
Febbraio 6, 2015 alle 1:01 am #1824851ClaudioPartecipanteMa che bella tazza! C’è mica posto per un altro selfie lì dentro? Che dici, mi permetto?! Prometto che cercherò di restare in argomento…
PS: …ah, che sbadato, dimenticavo di fare una citazione: “Non tirate lo sciacquone!” (Ken Livingstone, ex sindaco di Londra)
Attachments:Gennaio 20, 2015 alle 1:31 pm #1823106ClaudioPartecipanteL’hai per così dire ammorbidita tutta, riflessi sui capelli compresi. La trovo ora più omogenea. Confrontata con la prima che era iperdettagliata, la mia impressione immediata è stata di una leggera mancanza di definizione. Eheh: ne ho sempre una. Ma al di là che potrebbe essere una conseguenza della compressione per il web, in ogni caso, suppongo che questa seconda, presentata da sola e non in mezzo a una serie di alternative con molto più dettaglio/contrasto, possa essere nel complesso preferibile, anche nei termini di una “riconoscibilità” e “naturalezza” del soggetto. Ciao!
Gennaio 19, 2015 alle 5:44 pm #1823020ClaudioPartecipanteSì Ennio, tutti esempi estremamente chiari, ti ringrazio molto. Con questa consapevolezza riesco anche ad apprezzare ancora di più le tue “piccole soddisfazioni personali”.
In generale che certe conoscenze non direttamente fotografiche potessero risultare utili per fare delle buone fotografie era una cosa che immaginavo (mi era venuta in mente la quasi scontata analogia con le foto naturalistiche nelle quali la conoscenza degli animali che si fotografano può diventare alle volte determinante per dei buoni risultati fotografici), ma purtroppo è anche una cosa alla quale in molti, nei fatti più che nelle parole, si rifiutano di dar peso (cosa che perciò cerco sempre di verificare chiedendo conferma a chi pratica con dei buoni risultati un determinato genere; come è accaduto con te, in questo caso). Grazie ancora, ciao!Gennaio 19, 2015 alle 2:35 pm #1823001ClaudioPartecipanteHo letto e quindi tengo conto delle ragioni e del compromesso che stanno dietro alla prima patata, però la differenza tra la pelle del naso e la guacia (zona alta verso lo zigomo) credo si noti un po’ troppo. Mi rendo conto che potrebbe benissimo essere qualcosa che non dipende da te (es. fondotinta, es. pelle d’oca sulla guancia) oppure magari la luce radente (come hai già ben spiegato). Resta però il fatto che la zona della guancia-naso prende la mia attenzione più degli occhi, e non credo che questo fosse essenziale affinché il soggetto potesse poi “riconoscersi” guardando la foto; ma forse lo era affinché la foto oltre che del soggetto fosse un po’ più “tua”. Ciao!
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